Arianna Art Ensemble | Cimbalu d’amuri

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Cimbalu d’amuri“: canzoni, tonos e danze in Sicilia al tempo dei Viceré
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ARIANNA ART ENSEMBLE
Debora Troia: voice | Cinzia Guarino: harpsichord | Silvio Natoli: archlute, colascione | Giuseppe Valguarnera: tombak, darbouka (1, 8) | Matteo Rabolini: frame drum, darbouka, udu, ocean drum (3, 5, 7, 10)
Paolo Rigano: baroque guitar, conduction
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Produced by Paolo Rigano for Associazione MusicaMente
Production consultants: Gianluca Cangemi & Luca Rinaudo

Recorded and mixed by Gianluca Cangemi and Luca Rinaudo at Zeit Studio (Palermo – Sicily, Italy). Studio assistant: Marco Nascia.

Mastered by Luca Rinaudo at Zeit Studio (Palermo)

Art direction and graphic design by Antonio Cusimano a.k.a. 3112htm from a photo by Zack Jarosz

Product manager: Gianluca Cangemi
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L’idea di dar vita a questo progetto discografico nasce della lettura di alcuni articoli sul tarantismo. Con mia sorpresa sono venuto a conoscenza che anche in Sicilia, nel XVII secolo, la musica veniva utilizzata a scopo terapeutico. Ad attrarre il mio interesse è stata in particolare la tarantella siciliana Stu pettu è fatto cimbalu d’amuri che l’erudito gesuita Athanasius Kircher inserì nel suo trattato Magnes sive de arte magnetica (Roma, 1641) come esempio per la terapia del tarantismo, il rito che permetteva, attraverso musiche e danze, di guarire disturbi provocati dal presunto morso di un ragno velenoso. Questa tarantella, su un’ottava siciliana, parla di un amante non corrisposto che identifica le sue pene d’amore con il “cimbalu”, il clavicembalo, e in particolare con le parti che compongono lo strumento: tasti, corde, rosa e martelli.
Questo raro esempio di musica siciliana presenta caratteristiche popolari, come il testo in dialetto e il ritmo di tarantella, e tuttavia lo strumento protagonista è il clavicembalo, certo più adatto ad un contesto di musica colta. Nel periodo barocco spesso l’impiego delle forme di danza nella composizione si offriva come un terreno di scambio tra la produzione colta e la musica popolare. Poco ci è stato tramandato attraverso la notazione musicale, ma da quanto emerge da una consistente documentazione dell’epoca, pare che le arie-canzuni siciliane fossero molto apprezzate in tutta Italia per le dolci melodie, le armonie ardite e per la bellezza dei versi, alcuni frutto della penna di famosi poeti. In Sicilia, infatti, accanto ad una tradizione colta o semicolta, esisteva una tradizione musicale popolare secolare da cui ho potuto attingere. Ho quindi arrangiato la tarantella inserendo un’introduzione strumentale e un ritornello che si ripete ogni due strofe del canto.

Anche un’altra musica doveva certo echeggiare per strade e vicoli delle città siciliane: era quella che proveniva dalla Spagna. La presenza spagnola in Sicilia ha lasciato infatti nell’identità culturale isolana un segno evidente, al pari di quella greca e araba. Il Regno di Sicilia diventò dominio spagnolo nel 1516 con l’ascesa al trono di Carlo V. La presenza culturale spagnola nell’isola durò molto a lungo, anche oltre il tempo della dominazione politica, il consolidarsi della quale generò uno scambio culturale e un flusso di artisti e di musica tra l’Italia e la Spagna, rinsaldato dal conseguente stabilirsi dei Viceré con il loro seguito importato dal paese natio.
Ho pensato quindi che il filo che tesse insieme i brani di questo album potesse essere proprio il mio strumento, la chitarra spagnola, molto usata a quell’epoca in Spagna e in Italia, sia come strumento solista che per il basso continuo, tanto nella musica colta quanto nell’espressione popolare.
Per questo ho scelto danze spagnole e tonos humanos, musica vocale profana spagnola, già in origine composti per chitarra solista e per chitarra e voce, affiancati a danze e arie siciliane, nelle quali la chitarra ha un ruolo centrale sia per l’accompagnamento della voce che come strumento solista. Ho aggiunto, nei brani di insieme, strumenti come il colascione, la tiorba, il clavicembalo e le percussioni, anch’essi molto usati a quel tempo in queste aree geografiche e in questi repertori.

È indubbia la importanza della chitarra nella Spagna dell’epoca, considerati i molteplici libri e trattati che ci sono pervenuti, ma abbiamo anche chiare testimonianze sulla diffusione della chitarra in Sicilia. Tra queste è interessante l’inventario degli strumenti nella bottega del liutaio palermitano Paolo Cullaro, redatto nel 1618 dopo la sua morte. Questo documento enumera, all’interno del laboratorio di liuteria, ottantuno chitarre tra strumenti pronti o in lavorazione.
Altra importante testimonianza è in La Nuova Chitarra di Regole, Dichiarazioni e Figure (Palermo, 1680) di Antonino di Micheli. In questo florilegio di arie e danze siciliane sono infatti indicate, col testo delle canzoni, le armonie della chitarra scritte secondo l’alfabeto della chitarra spagnola. Purtroppo di Micheli non scrisse, con le armonie, le melodie, dando per scontato che fossero note a tutti.

Punto di partenza per la scelta delle musiche dal repertorio spagnolo non poteva che essere Santiago de Murcia (1637-1739), uno dei più significativi musicisti e compositori della chitarra barocca. Fu probabilmente un grande viaggiatore, come dimostrano le tracce da lui lasciate in giro per il mondo, fino in Messico, dove è stato ritrovato il Codex Saldivar n° 4 (c. 1732). È plausibile che de Murcia abbia fatto tappa anche in Italia, come testimoniano le sue Tarantelas o le versioni per chitarra di composizioni originariamente scritte per violino e basso continuo da Arcangelo Corelli.
Il Fandango di De Murcia è ispirato a una danza e stile musicale di origine popolare spagnola, diffusi tra i colti musici virtuosi anche in Italia, e d’ispirazione anche a compositori della caratura di Luigi Boccherini e Domenico Scarlatti; in quest’album lo si trova tradotto in una versione in cui la chitarra barocca è affiancata dal clavicembalo adoperato nel doppio ruolo di sostegno ritmico e di strumento improvvisatore.
Similmente al Fandango, la Jácaras origina da un genere poetico e musicale frequentato da molti compositori, tra cui nel XVII secolo Antonio de Santa Cruz, il quale si dedicò a questo genere di canzoni utilizzando strumenti a pizzico come chitarra, arpa e clavicembalo, così rendendo il genere autonomo dalla sua origine letteraria. Le Jácaras erano, infatti, come le Bailes, le Loas e le Mojigangas, intermezzi tra gli atti delle commedie. In questo album sono proposte in una versione per chitarra, tiorba e percussioni, che ne esalta l’aspetto ritmico.
Tra i più rilevanti compositori spagnoli per canto e chitarra del Seicento è Jose’ Marin (1618-1699). I due suoi Tonos Humanos in questo album – danze intrise di ritmi e tradizione popolari – sono tratti dal manoscritto conservato presso il Fitzwilliam Museum di Cambridge. In particolare No piense Menguilla ya è costruito su un canario, genere figlio di una forma di danza tipica delle isole Canarie, molto popolare all’epoca tanto in Spagna come in Italia.

Anche la Sonata di Domenico Scarlatti (1685-1757) – figlio del palermitano Alessandro e operante anche in Spagna – oltre a costituire un legame tra Sicilia e Spagna per ragioni biografiche del suo autore, è intrisa di molteplici elementi della musica popolare iberica, evidenti nella ritmica del brano e negli accordi ribattuti rapidamente a riecheggiare la tecnica del “rasgueado”, propria della chitarra spagnola.

Punti di riferimento per i brani di precipua origine siciliana sono state le testimonianze di illustri etnomusicologi, che hanno permesso di tramandare parte dell’immenso patrimonio storico musicale dell’isola. Tra queste una particolarmente significativa si deve al musicista e musicologo tedesco Giacomo Meyerbeer (1791-1864), che trascorse in Sicilia un periodo di vacanza nell’estate del 1816, durante il quale annotò su pentagramma trentotto brani. Tra questi sono qui proposti: Li Cinque Passi, danza presente anche nella raccolta di Bernardo Storace Di varie compositioni d’intavolatura per cimbalo ed organo (Venezia, 1664), e la Capona Palermitana, presente anche nel Libro Quarto d’Intavolatura di Chitarrone (Roma, 1640) di Johannes Hieronimus Kapsperger, e nel Libro secondo di intavolatura di chitarra (Roma,1647) di Ferdinando Valdambrini. Entrambi i brani siciliani vengono dichiarati dal Meyerbeer di origine molto antica e, nel caso della Capona Palermitana, come scritta cento anni prima.
Queste fonti, insieme al lavoro di etnografi siciliani come Lionardo Vigo Calanna (1799-1879), Giuseppe Pitrè (1841-1916) e Alberto Favara (1863-1923), ci consentono di ascoltare oggi una parte del patrimonio musicale siciliano antico, che diversamente sarebbe andato del tutto perduto.
Proprio dal lavoro di questi ultimi ho attinto per gli altri due brani siciliani: Mi votu e mi rivotu e A la fimminisca. Il primo è uno straziante canto con tema amoroso, ricco di affetti barocchi, che si trova nella raccolta Canti popolari siciliani (1871) di Giuseppe Pitré, in una variante molto simile a quella annotata nella precedente Raccolta di canti popolari siciliani (1854) di Lionardo Vigo Calanna.
Il secondo, dalla raccolta Canti della terra e del mare di Sicilia (Milano, 1921) di Alberto Favara, è un canto che le donne dei pescatori di Trapani intonavano nell’attesa del rientro dei mariti sui pontili del porto. La forza espressiva di questo canto interessò anche Luciano Berio che lo inserì tra le sue note Folk Songs.

Paolo Rigano

 

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Special thanks to: Gianfranco Perriera, Carla Fundarotto, Sergio Bonanzinga, Daniele Sicilia, Raffaele Nicoletti, Arianna Rigano

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